Israele, Palestina, la Flotilla e il paradosso dell’ONU: tra divisioni e narrativa politica
La relazione tra Hamas e l’Autorità Palestinese (PA) è una delle dinamiche più complesse e significative nel conflitto israelo-palestinese. Questa divisione ha profonde implicazioni politiche, sociali e diplomatiche, influenzando la percezione internazionale della causa palestinese e la capacità di raggiungere una soluzione pacifica.
Nel 2006, Hamas, un movimento islamista fondato nel 1987, ottenne una vittoria sorprendente nelle elezioni legislative palestinesi, battendo Fatah, il partito dominante e laico. Questa vittoria segnò l’inizio di una frattura profonda tra le due fazioni. Le divergenze ideologiche e le differenze nelle strategie politiche portarono a conflitti interni, culminando nel 2007 con il conflitto armato che vide Hamas prendere il controllo della Striscia di Gaza, mentre l’Autorità Palestinese manteneva il controllo della Cisgiordania.
Nonostante la divisione, ci sono stati numerosi tentativi di riconciliazione tra Hamas e l’Autorità Palestinese:
- Accordo di Mecca (2007): un tentativo di formare un governo di unità nazionale, fallito rapidamente a causa di divergenze interne.
- Accordo del Cairo (2011): mirava a stabilire una roadmap per la riconciliazione, ma incontrò ostacoli significativi nella sua attuazione.
- Accordo di Doha (2012): prevedeva la formazione di un governo di unità, ma anch’esso non portò a risultati concreti.
- Accordo di Pechino (2024): firmato da diverse fazioni palestinesi, inclusi Hamas e Fatah, mirava a rafforzare l’unità nazionale, ma la sua implementazione è ancora incerta.
La divisione ha avuto diverse conseguenze politiche:
- Frammentazione del Movimento Nazionale Palestinese: indebolendo la posizione dei palestinesi nelle trattative internazionali.
- Difficoltà nella governance: ostacolando la capacità di fornire servizi essenziali e gestire efficacemente le risorse.
- Implicazioni per la pace: rendendo impossibile una negoziazione efficace senza una leadership unificata.
La relazione tra Hamas e l’Autorità Palestinese continua a essere cruciale nella geopolitica del Medio Oriente. Senza una risoluzione di questa divisione, le prospettive per una pace duratura tra israeliani e palestinesi rimangono incerte. La comunità internazionale osserva attentamente, sperando in una futura riconciliazione che possa portare a una rappresentanza palestinese unificata e a una soluzione pacifica del conflitto.
Netanyahu all’ONU: Narrazione e Strategia
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite è da sempre il palcoscenico in cui leader politici cercano non solo di rivolgersi al mondo, ma anche di scolpire la propria immagine nella storia. Per alcuni, come Nelson Mandela o Václav Havel, è stato lo spazio della legittimazione internazionale. Per altri, da Fidel Castro a Hugo Chávez, è stato il pulpito dell’invettiva. Benjamin Netanyahu, da anni abituato a muoversi tra mappe, moniti e frasi ad effetto, ha fatto della tribuna ONU il suo teatro preferito.
Anche quest’anno, il premier israeliano ha scelto di affrontare un’aula semivuota: molte delegazioni hanno abbandonato la sala in segno di protesta, lasciando un’immagine simbolica di isolamento. Ma per Netanyahu, quell’assenza è servita più di una presenza: il suo discorso era rivolto meno ai delegati e più all’opinione pubblica mondiale e, soprattutto, agli alleati che Israele non può permettersi di perdere.
Il contenuto del discorso, al di là delle frasi già note e dei toni taglienti, riflette una strategia precisa: costruire una narrativa globale in cui Israele non è il problema, bensì la soluzione. Non il nemico del Medio Oriente, ma il suo indispensabile baluardo.
Dietro la retorica e i richiami alla sicurezza, il punto centrale resta irrisolto: che cosa si riconosce, esattamente, quando la comunità internazionale proclama l’esistenza di uno Stato palestinese?
Il quesito non è teorico, ma pratico. Se si riconosce uno Stato unico che comprende Cisgiordania e Gaza, si finge di ignorare che l’Autorità Palestinese non riconosce ad Hamas alcun ruolo politico, e che lo stesso Qatar — pur considerato mediatore privilegiato — non è disposto a legittimare Hamas come attore statale. Gaza e Cisgiordania sono due entità politiche e militari separate, divise da rivalità profonde e dalla memoria di scontri sanguinosi.
D’altra parte, se si riconoscono due entità distinte — una a Gaza, una in Cisgiordania — si accetta implicitamente l’idea di due “Palestine” rivali. Ma a quel punto, cosa accadrà il giorno in cui inevitabilmente verranno alle armi? La comunità internazionale manderà una delegazione di celebrità, influencer o attivisti “green” a recitare un sermone sulla pace?
Il rischio è che l’indignazione diventi pura retorica, una valvola di sfogo emotivo che non incide minimamente sulla realtà. La politica internazionale, invece, richiederebbe lucidità, pragmatismo e — soprattutto — il coraggio di affrontare domande scomode senza rifugiarsi nelle soluzioni simboliche.
In questo contesto torna d’attualità un’idea bizzarra e visionaria proposta da Mu’ammar Gheddafi nel 2009: la creazione di “Isratine”, uno Stato unico binazionale in cui israeliani e palestinesi avrebbero condiviso istituzioni e sovranità.
All’epoca, la proposta del leader libico venne accolta con sarcasmo e sospetto: per i governi occidentali era l’ennesima provocazione di un dittatore eccentrico; per Israele, un incubo demografico; per i palestinesi, una resa camuffata. Eppure, come sottolinea OFCS, oggi quella visione appare quasi profetica.
Non tanto perché sia realizzabile — anzi, resta politicamente impraticabile — ma perché rivela la fragilità delle altre opzioni. Uno Stato palestinese senza unità interna è un guscio vuoto. Due Stati contrapposti sono una ricetta per la guerra civile. Una “Isratine” binazionale è un’utopia, ma almeno non è un autoinganno.
Netanyahu, ovviamente, respinge con forza ogni ipotesi del genere: per lui, uno Stato palestinese è una minaccia esistenziale, figuriamoci uno Stato misto. Eppure, il solo fatto che l’ombra di Gheddafi ritorni nelle analisi dimostra quanto la situazione sia intrappolata in una spirale di contraddizioni irrisolte.
Un altro punto di vista, espresso sulle colonne del Nuovo Giornale Nazionale, rovescia il giudizio morale sulla condotta di Netanyahu. Secondo questa lettura, il premier israeliano non è soltanto il difensore di Israele, ma colui che compie il “lavoro sporco” per conto dell’Occidente.
Israele, insomma, non si batte solo per se stesso. Con le sue operazioni militari, con il suo linguaggio duro e con la sua intransigenza, fa ciò che altri Paesi non possono permettersi di fare apertamente: contenere l’Iran, indebolire Hezbollah, interrompere i traffici degli Houthi nello Yemen, mantenere la stabilità energetica del Mediterraneo.
In questa chiave, il discorso all’ONU assume un significato diverso. Non si tratta di un leader assediato che cerca giustificazioni, ma di un attore consapevole che ricorda al mondo quanto dipenda da Israele. Un messaggio tanto brutale quanto efficace: “Ci condannate di giorno, ma ci affidate la notte.”
Pochi giorni prima dell’intervento ufficiale, circolava un discorso “fittizio” di Netanyahu, un esercizio retorico che elencava con toni trionfali i successi di Israele: la distruzione di Hamas, i colpi inflitti a Hezbollah, la paralisi del programma nucleare iraniano, le alleanze regionali rafforzate, i progressi tecnologici e militari.
Riletto oggi, quel testo sembra quasi un copione che Netanyahu ha in parte recitato davvero. Frasi come “Israele non è il nemico: è l’incubo dei suoi avversari e l’assicurazione sulla vita dei suoi partner” riecheggiano nel discorso reale.
Questo parallelismo non è casuale: dimostra quanto la narrativa israeliana sia ormai consolidata, prevedibile e ripetuta, ma anche quanto sia efficace. Israele ha imparato a costruire un racconto che resiste alle condanne e sopravvive alle crisi.
Il punto debole di questo racconto, tuttavia, è rappresentato dalla situazione umanitaria a Gaza. Le immagini di città rase al suolo, i numeri di vittime civili, le accuse di genocidio: tutto questo contrasta con la narrativa della “difesa necessaria” e mina la credibilità di Israele presso ampie fasce dell’opinione pubblica mondiale.
Netanyahu liquida le accuse come menzogne. Ma la discrepanza tra racconto e realtà è una crepa che rischia di allargarsi. Ed è qui che si gioca la partita più pericolosa: se Israele perde il sostegno morale dell’Occidente, la sua funzione di scudo diventa politicamente insostenibile, per quanto militarmente solida possa restare.
Uno dei passaggi più duri del discorso fittizio — e riecheggiato in quello reale — riguarda l’Europa: “Ci condannate pubblicamente, ma dipendete da nostra tecnologia, dal nostro gas, dalla nostra intelligence.”
Difficile smentire questo dato di fatto. L’Europa si trova stretta in una contraddizione permanente: da un lato, governi e opinioni pubbliche chiedono dure prese di posizione contro Israele; dall’altro, gli stessi governi sanno che Israele è indispensabile per l’energia del Mediterraneo, per le tecnologie di difesa, per la sicurezza informatica.
È un’ipocrisia strutturale, che Netanyahu sfrutta abilmente. Sa che le condanne non hanno conseguenze concrete, e che nei tavoli riservati le collaborazioni continuano indisturbate.
Lo stesso vale per gli alleati arabi: Egitto, Giordania, Emirati, persino l’Arabia Saudita. Tutti criticano Israele a parole, tutti devono rispondere alle proprie opinioni pubbliche. Ma nel frattempo, tutti sanno che senza Israele la pressione dell’Iran e dei Fratelli musulmani diventerebbe insostenibile.
Così, Netanyahu costruisce una diplomazia parallela, fatta di incontri segreti, canali militari, intese energetiche. Una rete che non compare nelle cronache ufficiali, ma che regge l’architettura di sicurezza della regione.
Alla fine, la domanda resta sospesa, irrisolta e forse irrisolvibile: quale Palestina vuole riconoscere il mondo?
Una Palestina unica? Significa integrare Hamas, cosa che nessuno è disposto a fare.
Due Palestine separate? Significa istituzionalizzare la divisione e preparare il terreno a un conflitto interno.
Una Isratine binazionale? Significa affrontare la questione demografica e identitaria, cioè la più esplosiva di tutte.
Per ora, l’Occidente preferisce non rispondere. Netanyahu, invece, preferisce che la domanda resti aperta: perché ogni risposta rischia di essere più pericolosa della guerra stessa.
Il discorso di Netanyahu all’ONU, reale o fittizio, mette il mondo davanti a un paradosso. Indignarsi è facile. Costruire soluzioni è quasi impossibile.
Riconoscere la Palestina senza chiarire cosa si stia riconoscendo è un gesto vuoto. Criticare Israele senza riconoscere il suo ruolo come baluardo regionale è ipocrita. Illudersi che slogan e sermoni possano sostituire la politica è pura ingenuità.
Forse Gheddafi, con la sua bizzarra “Isratine”, aveva colto meglio di altri il vicolo cieco in cui ci troviamo. Forse Netanyahu, con il suo ruolo di “esecutore del lavoro sporco”, esprime una verità che nessuno vuole ammettere apertamente.
L’unica certezza è che la crisi non si risolverà con un riconoscimento formale, ma con il coraggio politico — oggi assente — di affrontare il nodo centrale: quale Palestina, e quale Israele, possono davvero coesistere?
E nel frattempo la demagogica Flotilla getta benzina sul fuoco della divisione
Alla luce della frattura tra Autorità Palestinese e Hamas, la Flotilla per Gaza non può essere considerata un gesto neutrale di solidarietà. Ogni intervento di questo tipo diventa immediatamente uno strumento di propaganda politica. Hamas può presentarsi come il vero difensore della Striscia, rafforzando la propria legittimazione interna, mentre l’AP, percepita come più moderata o collaborativa con Israele, appare debole agli occhi della popolazione palestinese.
Allo stesso tempo, la Flotilla aumenta la pressione internazionale su Israele, generando condanne pubbliche e indignazione, senza affrontare la radice del problema: l’assenza di un fronte palestinese unificato. Ogni scontro rischia di consolidare ulteriormente il ruolo di Hamas, innescando un ciclo di escalation militare e divisione politica che rende ancora più complicata una negoziazione seria tra Israele e le diverse fazioni palestinesi.
