Quanto di umanitario e quanto di strategico si cela dietro l’operazione Flotilla? Qualche mese fa, sull’analisi “L’apertura di un nuovo fronte sud?” pubblicata su OFCS.Report, abbiamo prospettato scenari in cui Mosca, per reazione alla crescente distanza energetica e geopolitica dell’Unione Europea dalla Russia, potesse guardare con interesse a un “fronte meridionale” nel Mediterraneo –in particolare nel Levante e Nord Africa– come leva di influenza e destabilizzazione.
In quella sede abbiamo suggerito, ed i fatti paiono confermarlo, che il Cremlino non avrebbe gradito che l’Europa si liberasse troppo rapidamente dalla dipendenza energetica russa, e che un esacerbato conflitto nel Sud potesse rendere più fragile il “corridor centrale” alternativo all’energia tradizionale.
In questo contesto, ha preso corpo un’idea che potrebbe sembrare fantasiosa o eccessiva, e tuttavia merita attenzione: che la Global Sumud Flotilla, presentata come un’iniziativa umanitaria per rompere il blocco di Gaza, possa essere –almeno in parte– un veicolo mascherato di influenza russa, affidato a Hamas come intermediario ideologico e operativo, con l’obiettivo di:
1.favorire la causa palestinese e ottenere consenso simbolico nella comunità araba ed europea;
2.destabilizzare l’Europa attraverso tensioni migratorie, pressioni politiche e crisi umanitarie;
3.disporre in prospettiva di basi o punti di appoggio nel Mediterraneo orientale, utili per proiezione navale e strategica.
Fantasiosa idea o plausibile ipotesi strategica? Personalmente ritengo che allo stato attuale sia fondamentale cercare di valutare tutte le possibili ipotesi per evitare spiacevoli sorprese, ed in questo senso la geopolitica ci viene incontro come valido strumento di pianificazione delle più idonee strategie per fronteggiare i possibili scenari futuri.
Il tutto prende le mosse dalla considerazione che tra gli elementi che sostengono l’ipotesi di cui nel titolo per certo non sfigurano i seguenti:
- ad oggi l’uso moderno di guerre ibride e strumenti di pressione indiretta è prassi consolidata nelle strategie russe, specialmente in Europa (sabotaggi di imprese, cybersecurity, attacchi economici).
- Osservatori israeliani e analisti del Medio Oriente hanno già scritto di possibili collusioni tra Hamas e Mosca per progetti geopolitici più vasti, oltre il semplice conflitto locale. Un esempio è l’articolo “The shadow of Russia over Gaza” apparso sul Jerusalem Post del che ha acutamente all’uso ad interessi russi nel contesto palestinese e mediorientale in genere cui abbiamo accennato in un recente articolo apparso su OFCS Report con il titolo “Global Sumud Flotilla: i dubbi di Israele, il silenzio dei conti e l’ombra di Mosca”
- Il concetto di destabilizzare l’Europa via “fronte meridionale” e instabilità migratorie è presente nelle riflessioni strategiche riguardanti tattiche ibride (“micro-aggressioni” russe in Europa) segnalate anche dall’Economist nel contesto delle operazioni stealth russe.
Ovviamente, tTrattandosi di una ipotesi di lettura, in questa sede vanno per certo presi in esame pure gli elementi che ne riducono la probabilità e quelli che rimangono da dimostrare. Elementi che possiamo riassumere nei seguenti punti:
- Mancanza di prove pubbliche incontestabili che Mosca sia dietro la gestione finanziaria o direttiva della Flotilla (nessun documento ufficiale reso noto).
- L’ipotesi richiede che Russia usi Hamas come tramite controllabile, una cosa che implicherebbe un grado di coordinamento ideologico e militare che non è stato ancora provato né estensivamente documentato.
- Le operazioni geopolitiche russe nell’area sono spesso più legate alla Siria e alla preservazione delle basi che a un’aggressione diretta anche via proxy verso l’Europa, almeno finora.
Certo è che da quanto evidenziato nel nostro summenzionato articolo intitolato “Global Sumud Flotilla: i dubbi di Israele, il silenzio dei conti e l’ombra di Mosca” con riferimento ai rapporti tra Mosca e la Siria, emerge, quale non secondario supporto alla ipotesi qui illustrata, una interessante questione che solo in apparenza sembra essere confinata al ristretto ambito delle considerazioni fatte per comprendere il ruolo ed il peso di Hamas nell’operazione Flotilla.
Nello specifico intendo riferirmi a quanto di fatto, in prima battuta, avremmo potuto interpretare come un significativo corollario a supporto della indagata ipotesi di una correlazione fra Hamas e la Global Sumud Flotilla, ipotesi che in quella sede analitica ci siamo limitati in chiusura a definire decisamente confortata dalla sospetta –ancorché non probatoria– reticenza degli organizzatori quanto alla identità e natura dei finanziatori.
In quel contesto, infatti, un non secondario peso sarebbe stato doverosamente attribuibile al fatto che anche diversi siti di informazione egiziani e analisti militari di quel Paese hanno sostenuto, sulla base di autonome valutazioni per certo non qualificabili come sioniste, che dietro il cosiddetto “Convoglio Sumud”, che di fatto rappresenta solo una parte del progetto politico–mediatico guidato da Sarri, vi fossero i Fratelli Musulmani.
Un fatto, questo, che come vedremo è funzionale a capire il perché della ipotesi di lettura qui proposta circa il ruolo di Mosca nei fatti recenti.
In particolare pesa non poco quanto a tale proposito dichiarato dal Generale di Brigata Hatem Atif, ex alto ufficiale dell’esercito egiziano, che con le sue parole ha di fatto confermato che, sebbene il convoglio fosse presentato come spontaneo e civile, in realtà era pre-pianificato e orchestrato dai Fratelli Musulmani internazionali. Tanto può essere letto in un articolo intitolato “Il generale di brigata Hatem Atef ad Al-Hurriya: il convoglio della fermezza è la porta sul retro per il ritorno della Fratellanza attraverso la finestra di Gerusalemme” basato sulle dichiarazioni dell’alto ufficiale rilasciate il 10 Giugno 2025.
Articolo nel quale in apertura si può leggere testualmente: “L’analista politico e militare, il generale di brigata Hatem Atef, ha messo in guardia, in una dichiarazione al sito web Al-Hurriya, dal pericolo di quelli che ha descritto come “movimenti camuffati” che si nascondono dietro slogan di sostegno a Gaza e di resistenza all’aggressione israeliana, mentre in fondo portano avanti programmi ideologici transnazionali volti a riorganizzare la Fratellanza Musulmana nell’arena regionale”, il tutto al solo scopo di rilanciare la Fratellanza Musulmana.
Ma a ben guardare il Gen. Hatem Atef ha aggiunto qualcosa di ancora più significativo allorché ha dichiarato: “ Per quanto riguarda i finanziamenti e il coordinamento, Atef ha affermato: “I fili dei finanziamenti si intersecano dietro le quinte tra Qatar e Turchia, sotto una copertura britannica e un coordinamento dell’intelligence con le agenzie americane, mentre l’incubatrice intellettuale è una rete internazionale dormiente che si sta gradualmente risvegliando sotto la bandiera della jihad rivoluzionaria e della porta d’accesso a Gaza”.
Un qualcosa che risulta facilmente comprensibile per ciò che riguarda una Londra la cui politica interna si segnala particolarmente alla nostra attenzione per via di quell’atteggiamento decisamente fin troppo benevolo assunto dal Governo di Sua Maestà nei confronti della locale comunità islamica, ma che appare un po’ meno evidente nel caso di quegli Stati Uniti la cui politica estera regionale merita sicuramente un approfondimento a parte e molta attenzione da parte della leadership israeliana.
Per l’occasione lo stesso Atif, altro elemento degno di nota, ha richiamato il ruolo del summenzionato Abu Keshk, strettamente –come da fonti israeliane già autonomamente evidenziato– legato a Yahiya Al-Sari, con tutto quello che questo comporta per una serena valutazione del coinvolgimento dello European Council for Fatwa and Research. Una attenzione del tutto particolare merita la sottolineatura, fatta dallo stesso Gen. Hatem Atif, per quanto concerne il background ideologico di Yahiya Al-Sari, descritto come uno dei leader dell’Associazione degli Studiosi Musulmani in Algeria, storicamente legata alla Fratellanza, forte oltretutto di una posizione ideologica salafita-jihadista: Yahiya Al-Sari avrebbe, infatti, dichiarato che “le fatwa di Daesh erano corrette, ma la loro applicazione era sbagliata”, rivelando –questo sempre secondo il Gen. Hatem Atif– l’influenza del jihadismo radicale sulla sua formazione, con tutto quanto da ciò consegue nel contesto alquanto delicato in cui la summenzionata dichiarazione sarebbe stata resa.
Ora è proprio in ossequio a quest’ultimo rilievo che appare alquanto strano che l’ampia ed accurata ricerca di verifica condotta in un ambito plurilinguistico ((arabo, francese, inglese) volta, come doverosamente si dovrebbe procedere in questi casi, a trovare conferma dell’effettivo pronunciamento di tale dichiarazione (o di frase ad essa equivalente) procedendo al suo reperimento in una fonte primaria (video, audio, articolo o comunicato firmato da Yahiya Al-Sari), come pure accedendo agli archivi della stampa algerina (Echorouk, Ennahar, TSA, El Watan ecc.) per reperirvi una citazione diretta di Yahiya Al-Sari su quel contenuto, non ha prodotto alcun esito diverso da attribuzioni secondarie e repost sui social che ripetono quanto detto da (o attribuito al) Gen. Hatem Atif, e qualche post emerso dalla ispezione di stream canali Telegram/X, YouTube e siti di notizie che identifica un “Sheikh Yahya Sari” come membro dell’Associazione degli Studiosi Musulmani coinvolto in iniziative quali i Convogli per Gaza.
Sic stantibus rebus, poiché la catena delle fonti sembra passare da: (a) un’affermazione pubblica del gen. Hatem Atif riportata in un articolo o discorso da cui prende il via la catena dei (b) repost sui social che dicono “Atif ha detto che Yahiya Sari ha detto …”, che a loro volta conducono alla (c) ulteriore diffusione della notizia senza che si trovi il nesso diretto (cioè la citazione testuale di Yahiya Sari), è lecito domandarsi il perché di tutto questo, anche per meglio comprendere le difficoltà oggettive in cui Israele è costretto a muoversi. Un contesto in cui i nemici sono molti, e gli amici vanno tenuti attentamente sotto osservazione.
In questo contesto per meglio comprendere il perché di questa disamina ritengo opportuno analizzare la posizione ed il ruolo del generale Hatem Atif, di Yahiya al-Sari e la politica egiziana su Gaza in un contesto mediorientale di cui tutti parlano, ma che ben pochi si danno la pena di comprendere.
Tutto prende le mosse da quella catena di attribuzione della dichiarazione ascritta a Yahiya al‑Sari riassunta poc’anzi, il tutto al solo scopo di indagare, viste le risultanze, i possibili motivi politici interni all’Egitto che avrebbero potuto spingere il generale a diffondere o enfatizzare tale frase nel contesto della posizione egiziana su Gaza e sulla gestione dei movimenti islamisti.
In questo senso la dichiarazione di Atif si inserisce in un quadro politico complesso. Dopo il 2013, il governo egiziano di Abdel Fattah al‑Sisi ha intensificato la repressione contro i movimenti islamisti, in particolare i Fratelli Musulmani, spesso presentati come minacce alla sicurezza nazionale. In questo contesto, associare un religioso algerino a dichiarazioni di simpatia per Daesh serve a consolidare la narrativa securitaria del Cairo e a giustificare politiche restrittive utilizzando affermazioni che possano guadagnarsi il benevolo occhio di riguardo da un Occidente oltremodo interessato più che alle sorti di Israele e dei Gazawi, a quelle dei propri interessi strategici.
Un aspetto non secondario in questo contesto riguarda il fatto che l’Egitto controlla rigidamente il valico di Rafah, spesso chiuso o rallentato, impedendo l’ingresso massiccio di profughi e limitando i convogli di aiuti umanitari. Inchieste di Middle East Eye e Le Monde hanno evidenziato l’esistenza di società legate a figure vicine al potere che imporrebbero tariffe elevate per il passaggio dei camion diretti a Gaza: di fatto operando un vero e proprio taglieggiamento del quale nessuno ama parlare, anche perché questo imporrebbe una rivisitazione degli atteggiamenti antisemiti dominanti le piazze europee.
Tanto per non parlare dell’occhio studiatamente poco attento che Il Cairo, finché la cosa non minaccia la propria stabilità o i propri interessi, riserva a quei flussi, anche di armi, che attualmente continuano a fluire lungo i tunnel di Rafah che a quanto ci consta sono ancora parzialmente operativi, anche se in misura minore.
Alla luce di queste considerazioni le evidenze indicano che la frase di cui sopra è stata effettivamente pronunciata dal generale Atif, ma che il suo inserimento nei dossier israeliani, nonostante la sua mancata conferma come autentica dichiarazione di Yahiya al‑Sari, non va intesa come un tentativo portato avanti in malafede da parte di Israele, quanto piuttosto una conseguenza dell’abile mossa di chi quella citazione ha ritenuto di poter più facilmente diffondere usando un canale ufficiale israeliano che ha accolto la cosa con una leggerezza imputabile solo ad un poco opportuno abbassamento della guardia per un eccesso di mal riposta fiducia in chi di quella fiducia ha abusato per meglio potersene servire a tutto beneficio degli interessi politici interni egiziani. Interessi perseguiti puntando a rafforzare la retorica contro i movimenti islamisti per giustificare il controllo, quello sì inumano, del confine con Gaza e deviare l’attenzione pubblica dalle pesantissime responsabilità del governo egiziano per la crisi umanitaria.
Si tratterebbe, quindi, più che altro di un atto di comunicazione funzionale più alla politica interna egiziana che a una reale analisi religiosa. Attribuire a un leader islamico straniero dichiarazioni compromettenti consente di sostenere la narrativa del Cairo senza modificare la propria linea di condotta verso Israele o Gaza: e poco importa che l’inganno vero e proprio possa alimentare la polemica contro Israele supportata da dimmi occidentali, a loro volta inconsapevoli del fatto che tanto amore per la causa palestinese dimostrato da molti Paesi Occidentali, come pure da Mosca, Beijing ed Ankara, si spiega facilmente spostando l’attenzione sulle immense risorse energetiche presenti nei fondali del Mediterraneo Orientale: ché in caso contrario della sorte dei Gazawi in generale, e dei bambini e delle donne in particolare si parlerebbe oggi tanto quanto si parla di quelle dei milioni di Africani coinvolti negli oltre 20 conflitti che insanguinano il continente nero.
Una nota particolare merita in questo frangente quell’Italia che con la sua assunzione di una posizione diversa rispetto ad altri Paesi europei che come la Spagna, la Francia ed il Regno Unito, tanto per citarne alcuni, hanno riconosciuto lo Stato Palestinese stranamente senza imporre condizioni, (posizione che la Premier Meloni ha esplicitato sottolineato che il riconoscimento italiano sarà vincolato all’esclusione di Hamas e alla restituzione di tutti gli ostaggi israeliani), ha di fatto smascherato il disegno di cui sopra.
Un’Italia che, netta e lucida nel porre condizioni, è entrata a tal segno in rotta di collisione con le linee politiche fintamente filopalestinesi dei suoi partner europei, ha reso evidente il suo non volersi prestare a facili strumentalizzazioni, forte del fatto che nel bene e nel male è l’unico Paese europeo politicamente stabile, stabilente alleato degli USA, non vincolata al consenso degli “interventisti europei” e che, in qualche modo, ancora resiste alle pressioni dei dimmi e dei facinorosi che affollano le piazze e dei partiti della presunta opposizione.
Il rischio maggiore che il Governo Meloni deve affrontare, un rischio che non è dato sapere se sarà in grado di affrontare è quello che ci sta facendo toccare con mano la presa in considerazione del fatto che la flottiglia è sin qui servita, più che a rompere un blocco marittimo, a promuovere una narrativa internazionale che mira a mettere in crisi il governo italiano grazie alla sapiente mobilitazione di forze politiche interne financo istituzionali (politiche, sindacali, mediatiche).
Non possiamo, infatti, in questo senso, dimenticare l’orizzonte storico: fin dall’epoca della Guerra Fredda l’Italia è stata oggetto di strategie destabilizzanti. Il richiamo a Carlos lo Sciacallo e al progetto Hyperion non è retorico: sono operazioni che puntano a piegare la sovranità italiana attraverso interferenze estere e reti occulte.
A rafforzare questa analisi, vi è un ulteriore elemento: dietro la manovra che ha coinvolto la Flotilla Sumud si scorgono anche le impronte di Mosca. Il rientro surrettizio della Russia nella Siria di al-Joulani, sunnita come Hamas, e l’entrata in scena della Turchia, oggi alleata tattica di Mosca – come testimoniato dalle relazioni operative in Libia con Haftar e dall’evoluzione in chiave istituzionale della ex-Wagner: tutte cose che paiono più che altro segnalare l’avvio della fase operativa di quel “secondo fronte sud” di cui si era già data notizia il 2 giugno 2025 (OFCS, Mediterranean: a possible second South front), poi approfondito in ulteriori analisi (OFCS, Nuovi scenari bellici; OFCS, Il fronte meridionale non è una scoperta).
In questo contesto, il richiamo al terrorismo internazionale degli anni ’70 e ’80 – da Carlos al Lodo Moro – resta pertinente: un punto, questo, su cui si è tornati recentemente con riferimento al peso storico di quegli accordi segreti, che tutt’ora si segnalano per essere una “palla al piede” per la sicurezza nazionale e che vanno sotto il nome di “Lodo Moro”.
Alla luce di ciò, occorrerebbe un intervento deciso del governo italiano, che però oggi appare dotato di tanta buona volontà, ma mezzi limitati e “piedi di argilla”. La parola ora è passata agli Stati Uniti ed in particolare alla controversa questione del Piano Trump.
Un controverso piano che pur avendo consolidato l’allineamento Italia-USA, al momento ha solo offerto ad Hamas la possibilità di guadagnare tempo: la restituzione di alcuni ostaggi non sembra segnale di resa, ma piuttosto l’uso reiterato e calcolato di vite umane –e perfino di cadaveri– come scudi negoziali per impedire un attacco risolutivo. In questo quadro, emerge con chiarezza la distanza tra la logica occidentale – lenta, vincolata da distinguo – e quella mediorientale, che sfrutta ogni interstizio per rafforzarsi: ché a nostro avviso la resa dei conti è solo rimandata, ma non prima che l’attenzione di Mosca sia riportata sul continente europeo.
Il che spiegherebbe l’altrimenti inspiegabile cambio di rotta di Trump quanto alla promessa –perché solo di una promessa di tratta– di Trump di fornire i missili richiesti dal Governo ucraino.
